Design tra concretezza e visione: Arredativo incontra LucidiPevere

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Quando si parla di design, si scoprono realtà che fanno della manifattura e della  lavorazione artigiana la vera eccellenza. Sono realtà che in questi anni hanno saputo distinguersi e proporre prodotti innovativi non solo in  termini estetici, ma anche aprirsi a nuove possibilità di lavorazioni e sperimentare le capacità espressive dei materiali.

Tra queste realtà italiane c’è De Castelli. Al Salone del Mobile 2018, abbiamo incontrato i designer Paolo Lucidi e Luca Pevere che per l’azienda hanno disegnato quest’anno un nuovo prodotto: Talea,  libreria modulare a parete che si ispira al mondo vegetale.

La  libreria  si aggiunge ai tavoli Placas, che i designer avevano disegnato per l’azienda nel 2013. Con Lucidi e Pevere abbiamo parlato della collaborazione con De Castelli, del  nuovo progetto e riflettuto insieme su alcuni aspetti importanti del design contemporaneo

Avete presentato questo progetto nuovo per  De Castelli, un’azienda un po’ diversa nel mondo del mobile. Come è nata la collaborazione e come è stato interpretare lo stile De Castelli?

L.P. De Castelli è un azienda che c’è piaciuta fin da subito perché è un esempio estremizzato di Made in Italy.

E’ nata come officina meccanica, però in fondo c’era già la consapevolezza e la cultura del design. Per cui da Officina è  diventata uno strumento a disposizione di designer e architetti, che hanno realizzato diversi interni in giro per il mondo che adesso, con questo catalogo si è concretizzata in tanti prodotti realmente fruibili, non solo opere d’arte. Il bello è che De Castelli è un parco giochi per creativi, per designer, si possono fare tante cose e sperimentare . Noi quest’anno ci siamo affrancati dallo oggetto più scultoreo, per andare verso una direzione più “di sistema” e abbiamo fatto la libreria Talea che ha un altro concetto progettuale che ancora non avevamo affrontato da De Castelli.

De Castelli sembra portare il materiale a un livello a cui altri gli altri ancora non sono riusciti ad arrivare . E poi è un materiale che ha una crescita esponenziale e possibilità di utilizzo inaspettato da decorazione a finitura per esterni, è poetico…

L.P. Si, a volte il progetto è più il materiale stesso che l’oggetto, nel senso che sembra  quasi incredibile quanti tipi di finiture riescano a tirare fuori dallo stesso materiale.

Tu hai ossidazioni, acidazioni  finiture superficiali che di volta in volta cambiano e anche il materiali  cambia nel tempo, come il rame o il corten. Per cui è un progetto nel progetto. A volte si deve stare attenti ad usarlo, è facile eccedere, nel senso aggiungere troppi segni  perchè di suo è molto presente.

I metalli sono un materiale difficile da lavorare?

 

P.L Non è  difficile, ma bisogna disegnare dei supporti che possano accettare le diverse finiture e di  volta in volta fa dei  cambiamenti notevoli. Io a casa ad esempio ho dei tavoli Placas, che abbiamo disegnato per De Castelli.  I miei sono diversi dai suoi o da quelli presenti show-room, e questo è il bello.

Sono unici, come diceva Luca, la cosa “di design” più complicata su questo genere di progetto è quello di determinare dei confini. Si può far tutto, per cui non cerchi la massima espressione, ma cerchi  la giusta misura. A volte hai materiali difficili da rendere, ma questo caso vengono fuori molto bene.

Una cosa che tendiamo a evitare è la decorazione ovvero,  la “sovradecorazione” con questo materiale, si rischia di dire troppe cose. Per cui, tendiamo ad avere fogli di carta bianca su cui si applica la texture.

 

 

 

Molti designer stranieri ci dicono che amano Italia perché hanno a che fare con  aziende che hanno una storia. Gli italiani invece ci dicono che questo gli fa un pò paura, perchè ti confronti sempre con la storia, per voi come è ?

 

L.P. Dipende molto dall’azienda, ci sono aziende che hanno una storia  ed altre più giovani e dinamiche che comunque sanno cosa vogliono dire, per cui ogni volta c’è un rapporto diverso. La cosa che le accomuna un pò tutti  è il rapporto che noi cerchiamo con l’azienda. Per cui se ci piacciamo e  se l’azienda ha un modo di vedere il design che si avvicina al nostro, ci piace coltivare il rapporto.

 

P.L.  Le aziende italiane non sono mai state cristallizzate, è vero che sono storiche, ma il “fil rouge”è la capacità di innovare, cambiare continuamente. Lavorare oggi per aziende storiche significa cambiare le regole del gioco, perchè sono nate proprio grazie a questo. Aziende come De Castelli, che non hanno una storia profonda nella cultura del design ma sono realtà recenti,  incarnano il design italiano perchè sta nell’artigianalità e nella voglia di sperimentare e nella voglia di far lavorazione. Lavorare con quelle che hanno una storia o con quelle come De Castelli, più giovani, penso sia ugualmente stimolante  sia per noi italiani che per i colleghi stranieri..

 

 

Stiamo un po uscendo dal periodo delle “star del design” (per fortuna) ciò che avviene sono invece frequenti incursioni tra fashion, moda e design. Voi come lo vede questo momento del design?

L.P. Dal mio punto di vista c’è un altro pericolo in cui siamo incorrendo. Se prima c’era un periodo in cui c’erano le star del design, allora riuscivi ad identificarle. Oggi come oggi, c’è invece il rischio di perdere la sostanza del progetto, per favorire invece la condivisione sui social, l’immagine facile che funziona e questa è una cosa che a differenza di prima è molto diffusa è riguarda sia i designer giovani che quelli più datati . E’ un rischio che corrono un po tutti, mentre prima era più facile stare qua o di là, oggi invece questa perdita di significato e concretezza  è un rischio reale.

 

E’ come se si perdesse gli elementi oggettivi su cui valutare una cosa, tutto diventa soggettivo. Ti piace o non ti piace, ma non c’è un approfondimento è un immagine, è una patinatura, è qualcosa di veramente veloce e il problema è quello. Quello che non ci piace è il trends, fai presto a  rigenerati  ma non lasci niente, ti diluisci in qualcosa di cui non rimane nulla.

 

Diciamo ora c’è l’inquadratura da Instagram, ma il concetto, il racconto, il materiale non rimane nello scatto…

P.L. Diciamo che ci può stare, nel  senso  che il progettare, il prodotto si deve comunicare come si deve. Perchè ci sono progetti di qualità, fatti bene, ma che magari non sono comunicati come dovrebbero, ed anche questo è un errore. Ci vuole il giusto bilanciamento, se hai fatto un prodotto di qualità, che funziona sul mercato tutti sono contenti, i designer e i consumatori finali,  ed è giusto presentarlo in modo compiuto, ma non deve mancare dietro la sostanza.

Instagram è uno strumento utilissimo, nel senso che arrivi a tantissimi e permette di comunicare a molti, però deve esserci un fatto. Nel senso che deve esserci qualcosa da raccontare, non è uno scatto con il filtro che deve sovrastare quello che è la sostanza,  serve la concretezza.

 

Anche il mondo dell’editoria è contaminato da questo, nel senso che è abituato a vedere così tante cose. E se non ti comunichi, anche se hai fatto un buon lavoro, sparisci, per cui è importante anche per quelli che vogliono fare qualcosa di valido, uscire sui nuovi media .

Se doveste guardarvi indietro a quando eravate studenti usciti dall’università, questo mestiere era come ve lo immaginavate ?

P.L.  No, abbiamo imparato molto dopo l’università e dopo i primi anni di gavetta e si continua ad imparare. Anche perchè il mondo è cambiato, per cui se quando abbiamo cominciato si faceva design in un certo modo e tutta la parte di comunicazione, rappresentazione del prodotto, era secondaria. Ora è diventata un punto importante e questa è una cosa che abbiamo imparato negli anni.

Così come i rapporti interpersonali con clienti, il cercare di capire cosa vogliono realmente, magari anche quello che non dicono. Con l’esperienza capisci  cosa stanno cercando, questa è cosa che si affina con l’esperienza.

 

L.P. Spesso ci capita anche di ripescare progetti vecchi, mai partiti e più si va  in là, più si capisce perchè non hanno funzionato e  non sono entrati in produzione.

Con il tempo impari a farti  autocritica, magari all’inizio  vedevi tutto bello, ed è giusto che sia così, perchè  sei giovane ed esuberante e dici questa è idea favolosa, poi capisci che è un bene non sia andata.