Tra design e architettura: Arredativo incontra Massimo Iosa Ghini

Pubblicato il Di in Interviste

Parlare di design con i protagonisti del contemporaneo è  sempre un’occasione importante, ciò arricchisce la nostra percezione di ciò che significa  “fare design” oggi. Qualche tempo fa, in occasione dell’evento Concreto creativo il ciclo di conferenze organizzato da Ordine e Fondazione degli architetti di Firenze insieme al Museo del Design Toscano,  abbiamo avuto modo di incontrare Massimo Iosa Ghini, architetto e designer pluripremiato che ha all’attivo collaborazioni importanti con brand nazionali e internazionali.

Abbiamo ripercorso insieme a lui la sua carriera, iniziata a metà degli anni ‘80  con la fondazione del movimento culturale Bolidismo proseguita nel gruppo Memphis con Ettore Sottsass.

Massimo Iosa Ghini, ci ha raccontato un pò del suo lavoro e del suo approccio progettuale…

 

Come influisce la formazione di architetto nel lavoro di designer ?

Il tema è abbastanza complesso, io credo che siano due aspetti che determinano un assetto diverso nella professione, nel senso che il disegno dell’oggetto è estremamente controllabile anche dal punto di vista fisico è si crea  una relazione con il progetto che ti insegna a lavorare sul dettaglio. Questo te lo porti dietro anche nel progetto architettonico e a volte è anche una difficoltà, perchè credo sia un metodo, che fa parte nella nostra tradizione progettuale, intendo “progetto mediterraneo” o  italiano se vogliamo. C’è molto questa idea di dettagliare e disegnare, piuttosto che lavorare per grandi linee, un approccio diciamo di “tipo anglosassone” per volumi e superfici e quindi ti rimane questa contettualità, orientata al dettaglio. E’ una modalità che da un approccio diverso al progetto e trovo, per quel che mi riguarda che sia necessario spaziare dal micro al macro, lavorando sulle due  queste dimensioni.

C’è una dimensione che le è più affine tra progetto architettonico e prodotto?

 

Io le vedo come due categorie aliene a me stesso, nel senso che ho una metodologia di lavoro con cui definisco se è  un macro oggetto o un prodotto, quindi no non la sento questa affinità diversa.

 

Lei  e’ stato uno dei fondatori del bolidismo come è nato ?

Il bolidismo, che ha questo nome “proto futurista” nasce dalla percezione che lo spazio la nostra società all’epoca si stava trasformando in un sistema  fluido e questo concetto di una società in perenne mutazione si lega all’idea ad una velocità immateriale. Il futurismo era più legato alla velocità della ferrovia, delle auto, noi avevamo invece l’idea del perenne movimento e questa idea è anche la ri-conformazione anche fluida di spazi, oggetti, della società. Per cui  quello che cercavamo di rappresentare era un concetto astratto all’interno di un oggetto proprio e questa è una operazione artistica.

 

Mentre dell’esperienza con Memphis quali ricordi?

 

Memphis aveva la stessa base, nel senso che si voleva esprimere una idealità usando il media come oggetto e mi sono trovata molto adeguato in quella esperienza. In realtà continuavo a fare cose bolidiste dentro Memphis, con perfetta collimazione d’intenti ma non collimazione formale e di materiali. Perchè Memphis ha un retaggio di tipo politico, legato all’idea di un messaggio di anti-sistema che io all’epoca condividevo fino ad un certo punto. La mia interpretazione è un più valorizzante  verso un nuovo modo di essere di una società diciamo “nomade”.  Io sono più legato a certe esperienze fiorentine, avendo studiato per qualche anno a Firenze, come la non – stop city degli Archizoom, sono cose che mi hanno influenzato.

Trova che oggi, rispetto a quegli anni, il design sia  più prodotto e meno arte ?

Si è così, oggi il disegno del prodotto è un disegno “marketing oriented”, l’idea è fare un prodotto perché c’è un mercato, perchè ci sono i consumatori e lo ritengo pienamente lecito. Però questo è anche forse causa del mio spostamento verso l’architettura. Nell’architettura  rimane la possibilità di prendere una posizione verso l’utilizzatore che invece nel prodotto è precostituita. In architettura invece dipende, perchè i fattori sono diversi da contesto a contesto. Per cui ultimamente mi piace di più proprio l’architetto sartoriale che fa le cose per migliorare determinate situazione .

L’architettura è dentro questo “addendum” politico inteso come sociale, ma anche essere interpreti del sociale mi piace soprattutto per  l’aspetto di architetto come sarto, come ritagliatore, rifinitore di soluzioni su determinato contesti. Ecco questa idea della massificazione del prodotto che devi farne sempre di più, non mi è mai piaciuta del tutto, ma mi pare che il sistema italiano abbia scelto la strada della qualità. Noi anche quando si parla di progetto di design, lavoriamo sul prodotto che esce quasi sartoriale, per cui idea di prodotto industriale massificato, credo sia in crisi e quindi interessa meno rispetto al passato.